A partire da quel mattino del 7 gennaio 2015, quando dodici persone sono cadute sotto i colpi di due fanatici religiosi, proprio qui, in piena Parigi, abbiamo potuto vedere le pecore cittadine trovare rifugio nell’asilo sacro dell’appartenenza nazionale ed i loro belati essere sfruttati da tutti i politicanti desiderosi di vendere lo loro minestra avariata democratica e/o securitaria. Si invoca la difesa della libertà d’espressione, cara ai cittadini di ogni specie. Ma quanto vale questa “libertà d’espressione” così acclamata e che nessun media permette di criticare?
Perché è un potere mantenuto, come ovunque, dai suoi sbirri in armi e dai suoi tribunali, che mi dà questo diritto e il potere punisce e rinchiude tutti quelli che infrangono le sue leggi, dall’imbroglione alla ladra, dalla prostituta all’immigrato clandestino. La sua ipocrisia non lo innalza al di sopra degli altri, si trova allo stesso livello dei partigiani della guerra santa ed è allo stesso modo nostro nemico. Come sempre, dei diritti implicano dei doveri, in particolare quello di rispettare le regole, con sanzioni per le infrazioni. Quindi me ne frego di potermi esprimere se non posso agire di conseguenza, perché allora le mie parole non sono altro che vento, tutti possono dire quello che vogliono, ma la società continua il suo cammino così com’è, nella sottomissione, passiva o attiva, forse con una denuncia di principio, ma sempre, nei fatti, con l’accettazione. Essere “liberi” di esprimersi, ma incatenati nelle proprie azioni dalle leggi del codice penali significa essere liberi? L’“apologia” e l’“incitazione” al terrorismo, che hanno portato a tutta una frotta di condanne, mostrano ancora che il potere può sempre restringere il limite delle “libertà” che accorda, appena lo desidera. No, non troveremo la libertà nella pace sociale che cercano di imporci, ma soltanto nella realizzazione di una volontà di vivere senza nulla né nessuno al di sopra di noi, né in terra né in cielo. È per questo che non spendiamo una lacrima né per i tre sbirri, né i tre fanatici, poiché tutti loro avevano scelto di essere al servizio di un ordine superiore ed autoritario di cui credevano eseguire la volontà, sia essa supposta arrivare da una parola divina o dalla Ragione di Stato (in realtà, l’interesse dei potenti che regnano su quella parte del bestiame umano chiamato nazione).
Ben presto, erano in migliaia a riprendere, in Francia e altrove, il famoso “je suis Charlie” [“io sono Charlie”; NdT], che rispondeva al “j’ai tué Charlie!” [“ho ucciso Charlie”; NdT] gridato appena dopo il massacro da uno degli assassini. Ma cosa significa questo slogan, alla fine? Si tratta di un grido di adesione e di raduno dietro una Repubblica alla quale dovremmo obbedire perché, in cambio, essa difenda i diritti umani, come la famosa “libertà d’espressione”, per la quale quelle persone sarebbero state uccise. Quello slogan è diventato in poco tempo il simbolo della patria che ha fatto dei suoi morti degli eroi, per i quali bisognerebbe osservare un minuto di silenzio, la mano sul cuore, con un sentimento di solennità per il quale noi proviamo solo indifferenza. Ricchi e poveri, secondini e delinquenti, religiosi e atei hanno messo da parte le loro differenze e si sono ammassati in cortei servili per seguire solo quell’effige, quel mito che li fa credere simili fra di loro perché venerano la stressa bandiera. Se siamo rattristati dalla morte di quelle persone, essa non ci tocca, però, di più di quella di migliaia di anonimi che muoiono lontano dai nostri occhi, sotto le bombe, i colpi di fucile, alle frontiere e nelle prigioni dei più grandi terroristi del mondo, che hanno sfilato in pompa magna l’11 gennaio in Place de la République, a Parigi.
Nel frattempo c’è anche stata una presa d’ostaggi in un negozio di alimentari kasher, durante la quale quattro altre persone sono morte. Ma quelle persone non erano Charlie, non erano giornalisti conosciuti: non sono che delle vittime in più da aggiungere alla lista delle atrocità antisemite, che si allunga da secoli.
Il pericolo delle religioni è nella loro stessa essenza, nel principio di una verità assoluta ed alienante alla quale si può far dire qualunque cosa. Quindi, per vincere quelle e quelli che vogliono convertire altri a colpi di kalashnikov, bisognerà incitare quelli e quelle che credono in verità di questo tipo a rimetterle in questione, perché non c’è nulla, in questo mondo o al di fuori di esso, che possa accordarci la libertà. Non vediamo altro modo per raggiungerla che la battaglia contro tutto ciò che intende negare la nostra individualità e dare un senso alla vita, contro chi ci fa luccicare davanti agli occhi un paradiso, come ricompensa della sottomissione e della rassegnazione.
Non vogliamo né la “libertà d’espressione”, né la libertà di religione, che non sono altro che diritti accordati dai potenti in cambio della nostra obbedienza. Vogliamo la libertà tutta intera, totale ed indivisibile. Vogliamo bestemmiare ogni autorità e distruggere tutti i poteri, che si trovino nei libri sacri oppure alle frontiere degli Stati.
“Ci promettono i cieli, porco dio
Per sola ricompensa…
Mentre quei signori, porco dio,
Si gonfiano la pancia, dio maiale,
Noi moriamo di fame, porco dio!
Se vuoi essere felice, porco dio,
Impicca il padrone di casa…
Taglia in due i curati, porco dio,
Butta giù le chiese, porco dio,
E il buon dio nella merda, porco dio!”
(La Chanson du Père Duchesne, 1892.)
[Estratto da Lucioles, bulletin anarchiste de Paris et sa région, n. 21, febbraio 2015.]
Tradotto da Non-Fides