Yuan’e Hu

È giovedì 2 agosto 2012 e come quasi ogni giorno fin dal suo difficile arrivo sul territorio francese, otto mesi prima, Yuan’e Hu è là, sul marciapiede di Belleville. Come molte centinaia di altre cinesi di una quarantina d’anni, ha lasciato la sua vecchia vita, sua figlia, la sua famiglia ed i suoi amici per la grande traversata. L’Europa e le sue promesse, la promessa di un salario “decente”, di condizioni di lavoro meno dure, di una “libertà” messa in scena dai rari media occidentali che non vengono filtrati dal Partito Comunista Cinese. Ma Yuan’e Hu, a cui quelli che l’hanno fatta arrivare clandestinamente promettevano un lavoro come gli altri ed un salario che le permettesse di spedire un po’ di soldi a casa, si è fatta fregare, allo stesso modo di tante altre. È così che è finita sul marciapiede a vendere il proprio corpo in condizioni di miseria, a condividere una camera con otto altre donne a cui, come a lei, è stata rifiutata ogni dignità.

Può darsi che Yuan’e Hu fosse impressionata dall’esibizionismo di alcuni suoi compatrioti, quelli che passeggiano su grossi SUV o arrivano in limousine il giorno del loro matrimonio, che hanno ottenuto i documenti e che, la maggior parte delle volte, si preoccupano soltanto più di sé stessi, sfruttando forse quelli meno fortunati fra loro. Può darsi che Yuan’e Hu si immaginasse di poter beneficiare della solidarietà della comunità, ma non ha ricevuto che disprezzo, vergogna ed esclusione. Come capita spesso. Come si dice, “l’ultimo arrivato chiude la porta” e “ciascuno per sé”. A sua figlia, che cercava di contattare ogni quindici giorni, raccontava di lavorare in una sartoria, completando le proprie giornate con qualche lavoro occasionale di baby-sitter, “che era duro e stancante, ma che tutto andava bene”…

Evidentemente, come molti immigrati clandestini, sfruttati, mutilati dalla miseria, molestati dagli sbirri e privati di tutto, Yuan’e Hu non ha avuto scelta, quando individui miserabili le hanno spiegato che per rimborsare il costo del viaggio avrebbe dovuto prostituirsi, oppure morire nel terrore.

È giovedì 2 agosto 2012 e come quasi ogni giorno fin dal suo difficile arrivo sul territorio francese, otto mesi prima, Yuan’e Hu è là, sul marciapiede di Belleville. Aspetta, sull’asfalto bollente del terrapieno centrale di Belleville, che arrivi un cliente ad offrirgli, in cambio della sua dignità, qualche banconota che passerà subito dalla tasca del cliente a quella del magnaccia. Il cliente contratta, il prezzo non gli va. In questo mondo, comprare un corpo è un po’ come comprare un tappeto, si contratta. Yuan’e Hu transige, accetta. Porta il cliente nella sordida minuscola stanzetta che affitta per fare le marchette. Verrà ritrovata soltanto la sera, nuda, strangolata con il laccio della sua borsetta, con segni di violenza all’esterno e all’interno del suo corpo. Yuan’e Hu è morta.

Morta d’indifferenza. Morta nell’indifferenza. Morta di miseria. Morta di tradimento. Morta a causa della sua fiducia. Morta a causa delle frontiere. Morta della violenza degli uomini.

La giustizia ha da poco condannato il suo assassino a 20 anni di prigione, come se fosse lui l’unico responsabile della sua morte. Come se si trattasse di un fatto di cronaca nera isolato e distaccato da tutto il resto del contesto sociale, il gesto di un uomo la cui eliminazione risolverebbe ogni problema. Come se questa stessa giustizia da mattatoio che ogni giorno rinchiude ed espelle centinaia di persone, in maniera industriale, perché non hanno il pezzo di carta giusto, come se essa non avesse nulla a che fare in tutto ciò (ci si ricorderà, ad esempio, delle prostitute cinesi sans-papiers rinchiuse in un CIE nel dicembre 2013, in seguito ad una retata nel XIII arrondissement giustificata dalla “lotta contro lo sfruttamento della prostituzione”, oppure delle decine arrestate in quello stesso mese proprio a Belleville). Come se il terrore di Stato, attraverso i suoi giudici ed i suoi sbirri, non fosse responsabile delle morti quotidiane delle prostitute immigrate clandestine, dei migranti su cui sparano a vista alle frontiere d’Europa, fatti colare in massa su barconi al largo dell’Italia oppure arenati sui fili spinati della Grecia. Come se i porci in uniforme, che giocano a fare i protettori della vedova e dell’orfanello, non fossero responsabili della paura permanente che spingeva Yuan’e Hu a vivere nascosta agli occhi dei ricchi e delle diverse divise, come una morta-vivente, clandestinamente, indesiderabile. Yuan’e Hu pensava di essere costretta a prostituirsi oppure dover morire nel terrore, ma alla fine le sono toccati tutti e due.

Oggi abbiamo voglia di piangere Yuan’e Hu e tutti gli altri, ma la tristezza non ha mai fatto cadere delle mura; la rabbia e la rivolta, invece, si.

A Yuan’e Hu, a tutte quelle e quelli che la miseria uccide in silenzio, che lo Stato uccide senza nemmeno sporcarsi le mani, che il capitalismo affama senza che nessuno debba sentirsi responsabile.

All’idea che un giorno ci solleveremo, indesiderabili di questo mondo, e vendicheremo le offese fatte dagli Stati, dagli sbirri, dai padroni e dalle comunità.

Morte ai poteri.

[Tratto da: Lucioles n°20, Bulletin anarchiste de Paris et sa région, dicembre 2014]

Tradotto da: Non-Fides

 

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