“Le radici sono soltanto una maschera romantica per dire con belle parole che si sono seguite le migrazioni legate all’industrializzazione, come i gabbiani seguono un peschereccio… Tanto per raccogliere le briciole. Oggi è di moda avere delle radici, di qui, di là. Che stupidaggini! Ci inchiodano al suolo, ci impediscono di avanzare. Le radici vanno giusto bene per i ficus!”
Quello che ci può separare così come ci può legare, che ci differenzia veramente gli uni dagli altri, è l’insieme delle scelte che fa di ciascuno quello che è veramente. Non sono le diverse etichette attaccateci sulle spalle da altri, alla nostra nascita, secondo il colore della pelle, l’ambiente sociale o le origini, tutto questo con lo scopo di uniformarci, integrarci, formattarci, addomesticarci e sottometterci. È perché noi rifiutiamo ogni nozione di “natura umana” ed ogni necessità storica, perché pensiamo che l’individuo non è altro che la somma delle sue scelte, dei suoi desideri e dei suoi sogni, che noi non siamo solidali con le condizioni che sono imposte ai più oppressi, ma con il vigore e le prospettive con le quali essi resistono e combattono la loro oppressione.
Noi non riconosciamo lo statuto della “vittima”, questa nuova categoria costruita dalla giustizia o dalla norma, che propone lo Stato e le organizzazioni umanitarie e caritatevoli come soli rimedi, così come noi non riconosciamo alcuna generalità che si ponga al di sopra dell’individuo, né la responsabilità collettiva che ne deriverebbe. Per esempio quella di tutti i “bianchi” verso tutti i “neri” per quanto riguarda il commercio degli schiavi, di tutti gli “uomini” verso tutte le “donne” per quanto riguarda il patriarcato, di tutti gli “eterosessuali” verso tutti gli “omosessuali” per l’omofobia, di tutti i “tedeschi” verso tutti gli “ebrei” per il nazismo o di tutti gli “ebrei” verso tutti gli “arabi” per i massacri dello Stato d’Israele in Medio Oriente. Riconoscerci come “vittima” o “carnefice” per degli atti che non abbiamo subito o commesso noi stessi significa in qualche modo riconoscere quelle categorie che non sono mai servite ad altro che a subordinare l’individuo a qualche cosa di più alto, a sacrificarlo in nome di una Ragione Suprema, a reclutare degli eserciti per le guerre fra Stati. In quanto antimilitaristi, per esempio, noi non siamo responsabili dei massacri commessi in Afghanistan dallo Stato francese in nome di un “popolo di Francia” immaginario, unificato ed omogeneo. È per la stessa ragione che rifiutiamo slogan quali “Siamo tutti ebrei tedeschi” o “Siamo tutti palestinesi”. Di conseguenza, la sola responsabilità che riconosciamo è la nostra, perché è a noi stessi che rispondiamo dei nostri atti.
Fa elegante, al giorno d’oggi, trovare le proprie radici, interrogarsi sulle proprie origini, tornare alla fonte al paese, ordinare delle ricerche sul proprio albero genealogo, essere “roots”. Come se il suolo o il sangue potessero dare una qualche risposta ai nostri desideri di libertà; come se abbassare le “identità” altrui fosse il mezzo di attenuare le proprie sofferenze. Ognuno ha la sua piccola identità da mettere in concorrenza con quella degli altri, ognuno ha il suo piccolo orgoglio insipido da valorizzare, ognuno fa della sua piccolezza una forza, mentre tutti viviamo nella stessa merda e tutte queste divisioni e false opposizioni fanno il gioco del potere.
Al contrario, alcuni individui fanno ogni giorno la scelta di rivoltarsi, nelle prigioni, nei centri di detenzione per clandestini, nelle scuole, mandando affanculo famiglia e tradizione, eserciti, frontiere e nazioni. Ogni amante della libertà non attende che di incontrarne altri per distruggere, infine, tutti i ruoli e le categorie sociali che gli impediscono di ritrovarsi e di vivere, infine, quello che non è mai stato vissuto, tagliando via ogni radice che ci attacca ancora a questo mondo di dominio.
Attacchiamo tutto quello che ci allontana dalla nostra libertà.
Alcuni anarchici.
(volantino distribuito a Parigi, dicembre 2010)