A fine aprile scorso, la polizia ha dato inizio ad una vasta campagna di caccia all’uomo prendendo di mira, questa volta, gli immigrati venuti dalla Tunisia, che sopravvivono come possono – così come tutti noi. Essi sono stati molestati e arrestati a decine alla volta, nel Seine-St.-Denis [dipartimento a nord-est di Parigi, NdT] e anche nel nord-est parigino (Stalingrad, Jaurès, Belleville e nei dintorni della Porte de la Villette). Approfittando, in un caso, della Croce Rossa che radunava gli immigrati per dar loro un tozzo di pane, gli sbirri hanno riempito le loro gabbie per conigli, prima di andare a smistare il loro bottino umano al commissariato. Uno smistamento che, secondo le ammissioni molto chiare delle autorità, si fa sulla base delle “risorse, sufficienti o meno per garantire le loro spese di soggiorno” (sic!), cioè 30 euro al giorno. Non ci attarderemo sulla bassezza di questa frase mettendola in rapporto con la condizione di questi migranti che, spesso, dormono ancora all’aperto.
Si tratta di retate effettuate “in continuazione”, sempre secondo i termini della prefettura, di cui lodiamo la franchezza morbosa. Perché queste retate poliziesche, che esse mirino i Rrom, i migranti venuti dall’altra sponda del Mediterraneo o da altrove, o gli individui irriducibili al dominio e al controllo, sono una pratica regolare e costante dello Stato democratico. Come ogni buono Stato, esso cerca di gestire le tensioni sociali con la prigione, le condanne e le espulsioni. Colpire duramente i più refrattari o quelli potenzialmente più pericolosi agli occhi del potere, per spaventare tutti e riportare ciascuno sulla retta via della normalità del lavoro e della sua miseria economica.
Da subito, il sindaco di Parigi si è dato da fare, con alla mano quella penosa arma cittadinista alla moda: l’indignazione. E la faccia tosta di chiedere “umanità e dignità” per questi migranti. Cosa intende con questa espressione? Forse arrestarli e rinchiuderli dignitosamente ed umanamente in centri di detenzione a misura d’uomo, prima di espellerli con dignità, come il suo partito, il Partito Socialista, ha sempre fatto? Facendo sempre attenzione a cogestire questo lavoro sporco insieme ad associazioni ad esso vicine, vernice umanitaria di questa macchina che mira a controllare gli individui e a smistarli in funzione della loro possibile resa economica e sociale. Alcuni di questi espulsori mascherati propongono ad esempio, spesso in maniera celata, un aiuto materiale o un’ospitalità provvisoria in hotel o in centri d’accoglienza che sanno di carcere (per ammissione stessa dei migranti che ci sono passati), che vincolano però ad un impegno per il famoso “ritorno volontario” al paese di partenza.
Tutto ciò ha trovato presto la sua conferma e una parte dei migranti tunisini si è messa da sola a lottare, per ottenere principalmente due cose: dei documenti per tutti e un luogo per vivere e per organizzarsi. In un primo momento, partono in corteo selvaggio dalla Porte de la Villette verso Stalingrad, per reagire all’ennesima aggressione degli sbirri. Qualche giorno dopo, cercano di prendere la testa della manifestazione del 1 maggio, subito respinti dai sindacati e dai loro servizi d’ordine, e portano uno striscione che dice: “Né polizia né carità. Un luogo per organizzarsi”. La sera stessa decidono, insieme ad alcune persone solidali, di aprire un immobile appartenente al Comune di Parigi. Questo edificio, situato al numero 51 dell’Avenue Simon Bolivar, a fianco del parco delle Buttes Chaumont, verrà occupato ed autogestito da circa 200 persone per tre giorni, prima che gli sbirri, su richiesta di Delanoë [il sindaco socialista di Parigi, NdT], lo sgomberino con un grande impiego di forze, in un’operazione a cui supervisiona lo stesso Guéant [il ministro dell’interno, UMP, NdT].
A partire da quel momento, il Comune comincia a calunniare e trattare come bambini i tunisini in lotta, parlando di “sans-papiers tunisini manipolati da anarchici ed altri radicali”. I diretti interessati (i “sans-papiers”) mettono subito i puntini sulle “i” in una risposta pubblica, sottolineando in particolare che non hanno bisogno di nessuno che insegni loro come lottare e perché.
Questi tre giorni sono stati l’occasione di molte discussioni, in parte a proposito dell’auto-organizzazione, non sempre facile da mettere su, visti i numeri, ma anche in occasione di momenti intensi, come quell’occupazione selvaggia del viale, durata diverse ore, e segnata da qualche faccia a faccia ben determinato con gli sbirri. In seguito allo sgombero del Bolivar, viene decisa una nuova occupazione, questa volta prendendo la palestra comunale di Rue de la Fontane-au-roi, vicino a Belleville. Il 13 maggio, una manifestazione selvaggia attraversa, con gioia e forza, il quartiere di Belleville, fino a Goncourt. Ci si sposta in metro, approfittando per farci un bel casino (grida, scritte), sulla piazza del Comune, dove la quasi totalità dei manifestanti si ritrova circondata agli sbirri, in un’atmosfera tesa. Ognuno comprende, in quel momento, che il Comune non mollerà la presa, ma sguinzaglierà ancor più i suoi cani da guardia.
Nonostante lo sporco lavoro di divisione portato avanti da uno sciame di associazioni (che lavorano tutte, chi più chi meno, con il Comune, come Aurore, France Terre d’Asile, attiva tra l’altro nella buona gestione dei centri di espulsione per clandestini, e ECO – Ensemble Contre l’Oubli – desiderosa, questa, di ottenere la gestione dei centri di prima accoglienza, con delle succose sovvenzioni), che cercano di separare gli occupanti in base della loro “regione” d’origine e che propongono delle liste per qualche posto in centri di accoglienza, viene mantenuta una dinamica di lotta, cercando alla meno peggio di evitare di scivolare in logiche e pratiche da sostegno umanitario (accontentarsi di trovare e cucinare da mangiare per loro, trovare e gestire un luogo al loro posto, servire da mediatori nei negoziati…). D’altra parte, ci si potrebbe interrogare sul senso che ha chiedere all’oppressore diretto dei mezzi per organizzarsi (come un luogo, mentre basterebbe occuparlo e difenderlo). Se ci mettiamo in una prospettiva rivoluzionaria, ci si può poi interrogare sull’interesse che ha per noi il fatto di chiedere dei documenti per qualcuno, o anche per tutti, mentre vorremmo la distruzione dello Stato e delle sue frontiere. Certo che ci vogliono dei documenti per sopravvivere, ma tutti i documenti dovrebbero essere distrutti, affinché possiamo vivere. Al contrario di molte lotte di sans-papiers, però, questa sembra spesso rompere con i riflessi di vittimizzazione (nessuno sciopero della fame, nessuna teatralizzazione della lotta), cosa che contribuisce a renderla particolarmente interessante.
Per sabato 21 maggio viene indetta una manifestazione non autorizzata alla Porte de la Villette, bloccata alla partenza da una marea di celerini e di sbirri in civile della BAC, con le flash-ball in mano, assistiti da qualche RG [Renseignements généraux: un po’ come la DIGOS, ma non si sporcano le mani, NdT] venuto per aggiornare le proprie schede di informazioni. Ne seguono un arresto in massa ed una cinquantina di controlli d’identità in diversi commissariati, da cui tutti usciranno in fretta. Leggeremo sui giornali che questi controlli erano diretti ad identificare i presunti membri del molto fantomatico “movimento anarco-autonomo”, ancora una categoria inventata dal potere, come le “bande”, i “sabotatori” o i “nomadi”.
In seguito ci sono state delle azioni volte a mantenere alta la tensione e continuare a rendere visibile la questione delle frontiere e dei CIE e di metterli in relazione con i sollevamenti di inizio anno in Maghreb e Machrek. In particolare c’è stato il disturbo di un salone del turismo tunisino, montato per un intero weekend (21 e 22 maggio) davanti al Comune. Questo “villaggio del Gelsomino” presentava, con il più grande cinismo, i vantaggi della “nuova Tunisia”, cioè la Tunisia del dopo dittatura. Quella stessa Tunisia descritta in cartelloni pubblicitari che espongono slogan come “Sembra che in Tunisia la tensione sia alle stelle”, mentre mostrano un turista pancia all’aria in spiaggia o “Si dice che in Tunisia fischino le pallottole”, illustrato da un campo da golf [balles vuol dire sia pallottole sia palle o palline, da cui lo stupido gioco di parole del marketing pubblicitario, NdT]. Quella Tunisia venduta come il paradiso ritrovato per i turisti occidentali in cerca di sole e di esotismo, dopo disordini così seccanti per gli investitori immobiliari e gli altri amanti della redditizia pace sociale. Tutto ciò mentre il regime provvisorio continua la repressione a colpi di coprifuoco, arresti ed incarcerazioni a centinaia. Un volantino, distribuito da una cinquantina di persone, al grido di “Libertà!” e “Delanoë primo dei partigiani di Ben Ali”, ricordava questa situazione e affermava con forza che la lotta per la dignità non conosce né tregua, né frontiere, né recuperazione politica.
Intanto, il 20 maggio era stato occupato un edificio appartenente all’AFTAM (un gestore di centri di accoglienza), situato in Rue Bichat (nel 10 arrondissement). Sei giorni dopo, gli sbirri cercano di sgomberarlo, ma senza successo, vista la resistenza degli occupanti, appoggiati da un centinaio di persone solidali venute manifestare lì di fronte. Il giorno dopo, venerdì 27, però, la polizia torna in forze, di primo mattino, e riesce a sgomberarlo. Otto persone senza documenti vengono arrestate e poi trasferite al CIE di Vincennes, mentre nove persone solidali finiscono in stato di fermo di polizia per “violazione di domicilio”, “occupazione illegale” e “danneggiamenti”. Poco prima di mezzogiorno, una trentina di tunisini e solidali occupa la sede dell’AFTAM, al 16-18 Cour St. Eloi (12 arrondissement) e vi resta fin verso le 14. Chiedono il ritiro delle denunce e la restituzione dell’immobile sgomberato, trasformato in una struttura di accoglienza autogestita. Viene ottenuta solo la prima richiesta, mentre più di 30 camionette di CRS stazionano all’esterno.
Nello stesso periodo, qualche (troppo raro) gesto anonimo viene a dare un appoggio solidale e pungente, prendendo di mira di norma il Comune e le numerose associazioni che prendono parte alla macchina delle espulsioni [l’elenco degli attacchi si trova nelle pagine del giornale, NdT]. Nel momento in cui scriviamo queste righe, la palestra viene recuperata dal Comune, tramite i suoi agenti di sicurezza, che vi hanno istituito un sistema di controllo di chi entra e di chi esce per mezzo di ticket nominativi.
La lotta continua. E se vuoi sapere come continua, beh, muovi il culo…
Parigi, 5 giugno 2011.
[Estratto di Lucioles n° 3, Bulletin anarchiste du Nord-Est de Paris, giugno/luglio 2011]