Lucioles [lucciole, NdT] è un nuovo bollettino anarchico in lingua francese, che esce ogni due mesi nei quartieri poveri del nord-est di Parigi. È diffuso massicciamente per le strade, nei bar, librerie, e biblioteche di tali quartieri. Questo bollettino è il prodotto dell’incontro di anarchici che abitano in questi quartieri ed ha come motivazione principale l’agitazione. Ecco la traduzione dell’editoriale del primo numero:
Una notte nera. Una notte interminabile, glaciale, scura, ripetitiva e noiosa. Alcuni la passano fuori, sul marciapiede, un pezzo di cartone e dei vestiti raccolti qua e là, altri si rifugiano nei corridoi lerci del metrò, cacciati dagli agenti dell’azienda che lo gestisce o da quelli del comune di Parigi. Tutti si incrociano. Quelli che tirano a campare come possono in questa non-vita. La tizia va a vendere il suo corpo per qualche euro, l’altro deve andare a rompersi la schiena in un cantiere, l’altro a rompersi le palle dietro una scrivania, l’altro a servire i grassi borghesi nei café dei quartieri lussuosi; l’altro ancora deve cambiare dieci volte di marciapiede e restare attaccato ai muri per evitare gli sbirri che pattugliano, perché lui o lei non ha i maledetti documenti che lo Stato ci impone per poterci controllare. Altri ancora devono nascondersi per fumare, alcuni per evitare la narcotici, altri perché la famiglia li sorveglia stretto, o perché la religione che è stata loro imposta (o che si impongono da soli…) fa loro cadere sulla testa divieti e obblighi di ogni sorta.
Vendere il proprio corpo ad un padrone, cadere nelle mani della polizia dello Stato, o della polizia familiare, o della polizia comunitaria o religiosa. Dover lavorare fino a creparne o ritrovarsi a tirare la cinghia, oppure finire in prigione. Essere una merce e dover correre senza sosta dietro altre merci: per avere un tetto, vestirsi, mangiare, amare, leggere e viaggiare. Carne da lavoro, carne da scuola, in altri tempi carne da cannone… è la sorte di tutti noi, ci opprime tutti, quotidianamente.
E bisognerebbe pure che chiniamo la testa, che incassiamo il colpo, che chiudiamo il becco, che aspettiamo una pensione illusoria, un paradiso illusorio, una Gran Sera illusoria. Bisognerebbe pure che ci evitiamo vicendevolmente, che non ci guardiamo né ci parliamo, che restiamo in piccole bande chiuse, fra gente della tale origine. Che ci pestiamo per una cacchiata da dieci euro, per un pezzo di fumo, per una storia di gelosia, per una bandiera del cazzo, una religione del cazzo, una nazionalità del cazzo…per delle identità del cazzo.
È lo stesso dappertutto su questa terra: dappertutto i poveri, gli sfruttati e i dominati se la vedono male, sono ammucchiati in quartieri che sono come altrettante prigioni a cielo aperto, perché si calpestino e si ammazzino l’uno con l’altro. Allora, qualche volta si pensa di ottenere qualcosa riappropriandosi di questa prigione, di questa bidonville, di questo ghetto. “Belleville spacca tutto” [B. è un quartiere popolare del nord-est di Parigi, NdT]. A volte ci trinceriamo nei “nostri” quartieri semplicemente perché ci hanno sbattuti là, come si mettono degli animali nelle gabbie.
Identificarsi con la miseria alla quale lo Stato e l’economia vorrebbero ridurci ed aggrapparsi ad essa?
Oppure combattere questa miseria fottuta, prendersela con tutto quello che la produce, con tutto quello che ci tiene rinchiusi: i ruoli e le identità che ci vengono incollati addosso, le fabbriche nelle quali il capitalismo ci fa morire a fuoco lento, le scuole nelle quali ci imbottiscono la testa e ci insegnano ad avere paura, le banche che si arricchiscono grazie al nostro sfruttamento, le prigioni ed i commissariati nei quali lo Stato ci rinchiude dietro a sbarre di ferro, i tribunali e quelle carogne di magistrati che ci giudicano e ci condannano, i templi nei quali tutte le religioni ci minacciano della tale o tal’altra punizione terribile se mai osiamo essere troppo liberi per i loro gusti.
Lasciare da parte anche tutti questi comportamenti, tutti questi rapporti schifosi che ci impediscono di incontrarci, di comunicare e di associarci liberamente: gli sguardi, le proposte ed i gesti sessisti, omofobi, razzisti, le separazioni idiote tra “onesti ed innocenti cittadini, che aspirano a vivere in pace” e “cattivi teppisti, casseurs e delinquenti”, fra “buoni lavoratori” e “fannulloni approfittatori del sistema”, etc…
Ci siamo dentro fino al collo, in questa società di merda. Di questa guerra sociale, che non si può non vedere (a meno di essere ciechi, sordi e disonesti), siamo nel cuore, tutti. Allora, dato che abbiamo una vita sola, tanto vale fare le nostre scelte il più velocemente possibile, e anche il più chiaramente possibile.
Noi abbiamo fatto una scelta: quella di diffondere la rivolta contro tutto quello che ci rende la vita impossibile, unendo per quanto riusciamo l’atto alla parola, abbattendo la pace sociale dalle fondamenta, a cominciare da là dove viviamo, perché vi troviamo a portata di mano le strutture e le persone che ci avvelenano ogni giorno.
Ma i nostri cuori e i nostri pensieri vanno ben al di là di questo piccolo pezzo di territorio e delle barriere che lo circondano. La rivolta esplode ovunque, e possiamo riconoscere il violento desiderio di libertà ovunque esso emerga da questa triste vita, con uno sfavillare di luce, con un gran fracasso.
Anche noi vogliamo far esplodere questa rivolta, senza attesa né mediazioni, scaldarci al grande fuoco di gioia dove il dominio brucerà, per davvero.
E abbiamo sete di incontri complici.
A presto, quindi, qui o altrove.
[Da Lucioles n°1]